Quando, il 10 giugno
del 1940, l’Italia fascista entrò nel consesso dei belligeranti, mio padre
aveva da poco compiuto 14 anni, lavorava al caffè Garibaldi e certo a lui non
arrivò la cartolina, cosa che invece successe ai fratelli Francesco e Giuseppe.
Il Mario ricorda bene quel periodo, cominciarono le ristrettezze anche se
comunque al caffè la gente continuava a venire. In quel periodo vennero anche
organizzate sfide sportive fra i caffè varesini, con gare di ciclismo nella
bella pista di Masnago. Il Garibaldi vinceva spesso, poiché erano stati ingaggiati
i fratelli Morandi, ottimi ciclisti su pista. A seguito dei bombardamenti su
Milano (probabilmente quelli tragici dell’agosto 1943), molti milanesi
(soprattutto bancari, artisti….) vennero a Varese, e le famiglie bosine furono
costrette ad ospitarli: questo toccò anche al Battista Ravasi, al figlio Bruno…Aumentò
anche la clientela nei caffè. E così dopo l’8 settembre, con la presenza dei
soldati tedeschi. Mio padre viveva la vicende con un spirito da giovane piuttosto incosciente, una sorta di avventura. Così accolse di buon grado l’incarico,
che toccò a lui e ad altri pochi giovani della sua classe, di far parte dell’UNPA
(Unione Nazionale Protezione Antiaerea), giovani portaordini che si
esercitavano nella palestra di via XXV Aprile, di supporto ai Vigili del Fuoco.
Ma poiché loro dovevano essere i primi ad alzarsi e a correre in caso di
allarme antiaereo (allarmi soprattutto notturni) mio padre al mattino non era
efficiente sul lavoro, così il suo capo, Gino Schiannini, chiese aiuto alla
dottoressa di Masnago, che diagnosticò per il giovane pasticciere una forma ‘fasulla’
di broncopolmonite, rendendolo inabile a quel servizio. Vennero poi le tragiche
domeniche dell’aprile ’44, con i due bombardamenti su Varese, che fecero oltre
cento vittime, il primo (britannico) nella notte fra l’1 e il 2 aprile (17 morti), e il
secondo (statunitense) verso mezzogiorno, il 30 aprile (81 morti). Così le ricorda il Mario:
“Ricordo due
bombardamenti. Uno di notte e uno a mezzogiorno. Di notte io avevo sonno, mi
dissero che dovevo andare al rifugio ma non volevo, lasciatemi morire qui…poi
sono andato, ricordo la via Crosa piena di gente, chi portava materassi, gente
in ginocchio, che pregava, più che bombe cadevano spezzoni incendiari che
facevano luce, scendevano con i paracadute..ricordo che l’ombra di Villa Ponti
girava…ricordo case che bruciavano all’inizio di viale Aguggiari, in quella
zona…..alcune bombe caddero ma il terreno era troppo molle, aveva piovuto molto,
quindi non scoppiarono…se fossero scoppiate, le alte mura della via Crosa ci
avrebbero seppelliti tutti. Quello a mezzogiorno: avevo finito di lavorare in
laboratorio e mi stavo cambiando, per andare a servire al bar. Sentii che
stavano arrivando gli aerei. Con una scusa andai in soffitta e sul tetto, c’era
molto sole, vidi gli aerei che arrivavano da un’altra parte rispetto al
solito, poi sentii il rumore di metallo delle bombe che scendevano, scappai giù
di corsa e la casa tremò. Fu colpita la Macchi, il parco del Kursall (che era
un ospedale e fu risparmiato), colpite alcune case del quartiere di via Crispi,
alcune case di Masnago. Ricordo che tornando a Sant’Ambrogio vedevo le case
tagliate a metà, sulla tavola il risotto, la gente stava mangiando quando la
morte arrivò dal cielo.”
24-continua
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