Tornando
al lavoro di mio padre, mi era rimasto oscuro il motivo per il quale avesse
lasciato la pasticceria Zamberletti, in centro città, per andare a finire nella
sperduta Orino. E così mi sono fatto raccontare la storia. Il Mario già da
qualche tempo si era reso conto che doveva lavorare come un mulo (sevi sèmpar tacà su, per dirla in
dialetto), e le poche volte che si era permesso di far notare che non venivano
pagati gli straordinari, il padrone gli aveva fatto capire che dei soldi non
bisognava parlare. Così la rabbia montava come panna nel giovane pasticciere.
Avvenne poi un episodio, che generò la classica goccia del travaso del vaso.
Mio padre era già sotto pressione, aveva un centinaio di torte da completare, e
qualcuno aveva lasciato all’aperto dei dolci. Un temporale improvviso aveva
guastato il cibo, ma mio padre nulla sapeva di quei dolci in cortile. Venne il
padrone e lo incolpò ingiustamente. Il Mario, che per carattere non sempre si
sa trattenere, non disse nulla, si tolse il grembiule sporco e imburrato, lo
appiccicò in faccia al padrone, dicendo in bosino: ‘E mò se te sètt bun, te vett avanti ti!’ (E adesso, se sei capace,
vai avanti tu!). Dopodiché se ne andò. Sapeva bene che Zamberletti,
proprietario, non era un pasticciere. Lo chiamarono dopo due mesi per la
liquidazione. Né il Mario tornò sui suoi passi, né Zamberletti chiese scusa per
l’equivoco maldestro.
E’
interessante sapere un po’ la storia dei Marcolini, in base ai ricordi di mio
padre e all’articolo che qui riproduco, pubblicato su La Prealpina del 1978,
quando, dopo oltre cento anni di vita (era stata fondata intorno al 1860 dall’ex
garibaldino Mezzera), la storica pasticceria Garibaldi chiuse i battenti.
I
Marcolini venivano da Brescia, il padre e certamente due figli. Il padre era
nato intorno al 1880. Per alcuni anni, e sino al 1919, il ‘vecchio’ Marcolini
aprì una pasticceria, che occupava proprio gli spazi del caffè Garibaldi. Poi
sposò una donna di Biumo Inferiore che aveva una certa dote, con la quale i due
aprirono una fabbrica di dolciumi in via Como. Ma le cose andarono male, e così
il Marcolini si ‘accontentò’ di aprire una pasticceria in via Albuzzi, nella
vecchia casa Perabò, nota per la stupenda finestra, testimonianza di gotico
lombardo. La Casa Perabò era sorta alla fine del Quattrocento-inizi
Cinquecento, e ospitava una delle famiglie nobili più in vista di Varese.
Intorno agli anni Trenta (ricorda mio padre) ospitava un negozio di ferramenta
e poi ecco arrivare i Marcolini. Mio papà, che lavorava da Garibaldi, quindi
molto vicino, ricorda il padre e uno dei figli, affacciati sulla porta del
locale. Un altro figlio, Angelo, faceva il viaggiatore per la drogheria
Bianchi. Il figlio pasticciere si innamorò di una donna di servizio, ma quando
lo seppe il padre lo minacciò: ‘Un Marcolini non può sposare una donna di
servizio!’ Il figlio innamorato, di rimando, fece notare al padre che parlava
proprio lui, che era un fallito, visto che aveva dovuto chiudere la fabbrica di
dolciumi di via Como. I rapporti si incrinarono, tanto che il figlio mollò il
padre (già anziano) e sposò la sua amata, andando a vivere a Masnago. L’altro
fratello fu costretto a prendere le redini della bottega, ma non era pratico di
quell’arte. La pasticceria Marcolini era nota anche perché era fra le poche che
ancora utilizzava il forno a legna. Tramite la sorella Maria, mio padre venne a
sapere che Marcolini cercava un pasticciere, capace fra l’altro di usare quel
tipo di forno, e il Mario andava benissimo, avendo fatto la gavetta dal
Garibaldi, dove il forno era a legna (mentre da Zamberletti era già elettrico).
Detto fatto, accettò.
36-continua
Nessun commento:
Posta un commento