Nel 1944 per mio padre le cose
presero una piega poco lieta: cominciarono a chiamare quelli del ’26,
diciottenni che dovevano partire per la Germania, impiegati nelle fabbriche
belliche. Ma la convinzione era che la guerra fosse alla fine, che quindi fosse
assurdo coinvolgere anche questi giovani. Così a Sant’Ambrogio si formò un
gruppo di persone (il parroco don Barnaba Stucchi, il medico Lazzati, Cunietti
ed altri notabili del paese) con l’intento di procurare documenti falsi, incarichi
fittizi in Marina (la Marina non era chiamata ad andare in Germania) per
salvare i giovani santambrogini. Nel frattempo, però, in attesa delle carte,
questi diciottenni avrebbe fatto bene a scappare, a nascondersi. Così mio padre
finì a Bienate, vicino a Busto Arsizio, dove risiedevano alcuni parenti. Già li
aveva conosciuti da ragazzo, in gita a Sacconago. Il Mario ricorda che era
estate (molto probabilmente l’estate del 1944), che il grano era alto e che lui
giocava con una ragazza, Pina, che sarebbe diventata suora (foto). Dopo un paio
di mesi la sorella Maria andò a riprendersi il fratello, munita dei documenti.
A piedi da Bienate alla stazione di Busto Arsizio, e poi sul treno ecco subito
un controllo: ma il Mario era in regola. Così il treno si fermò a Varese e non
oltre confine. Riprese dunque a lavorare al caffè Garibaldi. Nel frattempo i
fratelli Francesco e Giuseppe erano scappati dopo l’8 settembre, ma la sorte li
spingeva ad andare in Svizzera, per evitare guai peggiori. Così mio padre
ricorda quella notte, quando i due fratelli, passando per i boschi, giunsero al
Gaggiolo e lui in bici, con il camice bianco del lavoro, si assicurò che
avessero passato il confine, soprattutto per rincuorare i genitori. E poi
ricorda quando, di tanto in tanto, si recava di notte, sempre in bici con la
cugina Ida, presso una famiglia che abitava vicino alla frontiera. Lì venivano
recapitate le lettere che non si potevano spedire dall’Italia, lettere che
venivano portate in Svizzera e quindi spedite nel paese neutrale. Buio, freddo,
paura: ma per fortuna arrivò il 25 aprile del ‘45.
Ecco come lo ricorda mio padre:
“Ricordo un clima di euforia e di
confusione, e anche di sospetto. Il tempo della grande vendetta. La gente
scendeva dai monti, gli internati ini Svizzera sarebbero arrivati poco alla
volta, mesi dopo, come i miei fratelli Francesco e Giuseppe.
Alcune donne
vennero prese e portate in piazza Milite Ignoto, a Sant’Ambrogio. Dicevano che
erano state coi fascisti. Vennero rapate a zero.
Sempre in
quella piazza il partigiano Augusto Bianchi, morto poi giovane di un tumore, si
faceva vedere con le armi in mano e un giorno cominciò a sparare dalla piazza
verso le ville. Uccise senza volerlo una bimba, figlia di sfollati.
Ricordo che
il 21 aprile un ragazzo discolo di Sant’Ambrogio, un monello diventato
partigiano, venne ucciso in una imboscata vicino alla Settima Cappella: lì
c’era una villa e lì si trovavano i partigiani.
Ricordo poi i
morti fascisti, uccisi nella zona dell’Ippodromo. Si era sparsa la voce di
questa esecuzione, la gente si muoveva in massa, fiumi di persone che volevano
assistere alla scena. Anch’io andai, avevo 19 anni, vivevo tutto come un’avventura.
Ricordo il podestà, un vecchietto arrivato forse il giorno prima da Milano: lo
vedo disteso a terra, con gli occhiali rotti e un pezzo di pane in tasca. Provo
ancora oggi una grande pena per lui.”
25-continua
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